
La gestione dell’orario di lavoro rappresenta un punto cruciale nei rapporti tra imprese e dipendenti. Se da un lato le aziende devono rispondere a esigenze produttive e organizzative, dall’altro i lavoratori devono poter contare su una pianificazione coerente con i propri bisogni economici e familiari. Da qui nasce un interrogativo comune: il datore di lavoro può modificare l’orario senza il consenso del dipendente?
Flessibilità organizzativa e diritti dei lavoratori
Il datore di lavoro gode di un certo margine di discrezionalità nella gestione dell’orario, a condizione che vengano rispettati i diritti minimi garantiti dalla legge, come pause, riposi e durata massima settimanale. Questo significa che l’articolazione interna delle ore di lavoro, i cambiamenti di turno o la nuova distribuzione settimanale possono essere stabiliti unilateralmente dal datore, purché non venga alterato il monte ore complessivo.
Tale facoltà deriva dal potere direttivo riconosciuto dall’art. 2104 del Codice Civile, che consente al datore di organizzare l’attività aziendale in modo funzionale. Tuttavia, questa autonomia deve essere esercitata con correttezza e buona fede, evitando abusi.
Quando serve il consenso del lavoratore
La modifica unilaterale dell’orario può essere contestata dal lavoratore se priva di motivazioni oggettive o se comporta un pregiudizio evidente, come nel caso di discriminazioni o situazioni vessatorie.
Inoltre, spesso i contratti collettivi nazionali (CCNL) prevedono:
- Un preavviso minimo per la comunicazione delle modifiche;
- Il coinvolgimento delle rappresentanze sindacali, specie in caso di variazioni collettive.
Va però precisato che l’accordo sindacale non è vincolante: il datore può comunque procedere se giustificato da esigenze concrete. A livello individuale, molti contratti includono clausole di flessibilità oraria, che riducono il margine di opposizione da parte del lavoratore.
Una recente ordinanza della Cassazione (n. 31349/2021) ha confermato che le modifiche organizzative possono riguardare tutto il personale, a prescindere dalle esigenze soggettive, e sono impugnabili solo se lesive della dignità del lavoratore.
Aumento dell’orario di lavoro: servono accordi
Diverso è il caso di un aumento dell’orario di lavoro. In questo caso, non è sufficiente una decisione unilaterale: è sempre necessario il consenso del dipendente. Ciò vale sia per il passaggio da part-time a full-time, sia per l’assegnazione di straordinari o lavoro supplementare.
Le clausole elastiche presenti nei contratti possono autorizzare l’impresa a richiedere ore aggiuntive, purché:
- Siano remunerate con la maggiorazione prevista (minimo 15%);
- Non superino i limiti settimanali stabiliti dal contratto.
In presenza di clausole di flessibilità oraria, le ore possono essere redistribuite su base semestrale, senza modifiche alla retribuzione, purché siano previsti riposi o permessi compensativi.
Secondo l’ordinanza n. 28862/2023 della Cassazione, il contratto si presume a tempo pieno, salvo diverso accordo scritto, e non può essere modificato unilateralmente in aumento.
Riduzione dell’orario di lavoro: non basta una comunicazione
Anche una riduzione dell’orario di lavoro necessita di un accordo tra le parti. In assenza di intesa, il lavoratore può rifiutare e pretendere il rispetto del contratto. Tuttavia, se l’azienda attraversa un periodo di crisi economica documentata, può avviare le procedure per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Molti contratti prevedono clausole che autorizzano temporanee riduzioni orarie, soprattutto in contesti di crisi. In ogni caso, l’azienda è tenuta a:
- Comunicare la modifica con preavviso;
- Agire con correttezza;
- Rispettare le regole previste dal CCNL di categoria.
In sintesi:
- La redistribuzione dell’orario è ammessa senza consenso, se non altera il monte ore contrattuale e risponde a esigenze oggettive.
- L’aumento o la riduzione dell’orario richiedono invece l’accordo del lavoratore, salvo clausole contrattuali specifiche.
- In caso di controversie, è sempre possibile rivolgersi al giudice per la tutela dei propri diritti.
La chiave è la trasparenza nei rapporti e il rispetto dei principi di buona fede e correttezza che regolano il rapporto di lavoro.